Durante la stesura del secondo episodio del nostro podcast “Uccidere la Bestia” (che potete ascoltare qui: https://open.spotify.com/show/0MoZfkGrX2oXWCSNmBa149?si=SVOq0qUfQTqJIwGvCuiFbA), abbiamo deciso di parlare con qualcuno che avesse fatto esperienza diretta delle misure alternative per aggiungere alla puntata un punto di vista più personale e concreto. Abbiamo così conosciuto Julian, che ci ha gentilmente concesso di intervistarlo e condividere la sua storia. Alcuni aspetti sono stati quindi trattati nel podcast, ma abbiamo pensato di condividere con voi altre parti dell’intervista che non abbiamo potuto inserire.
Quand’è stata la prima volta che nella tua testa è balenata l’idea di poter intraprendere un cambiamento, una strada diversa da quella in cui eri?
Quando nel 2007 sono stato arrestato (…), sono finito in alta sicurezza, in mezzo ai nomi importanti, ormai non ero più un delinquentello da quattro soldi, ero anch’io “laureato”. Finalmente ero qualcuno che contava nel mondo della malavita milanese e dovevo essere felice, avevo realizzato un sogno. Solo che non mi riconoscevo più e iniziavo a pensare ad altro: vedevo quelle persone [in carcere] e invece di vederli come li vede la gente, come duri che fanno paura, a me facevano tenerezza e pietà. Allora pensavo lo stesso di me: “se io faccio pietà e tenerezza alle persone qualcosa non quadra. Io sarei dovuto essere quello da imitare, un mito, allora perché mi faccio pietà? Perché mi faccio quasi schifo?” Mi sono rivisto dopo un po’ di anni e mi sono detto “non posso essere così”, però non sapevo cos’altro volevo essere o potevo essere. (…) Mi iscrissi in ragioneria solo per uscire dalla cella, non per studiare. Volevo solo cambiare aria, parlare di qualcosa di diverso. Sono rimasto incastrato perché io sono una persona molto curiosa.
Come sei passato da ragioneria a studiare filosofia?
Quando ho chiesto di essere trasferito da qualche altra parte mi hanno raccomandato Bollate. All’inizio ero contrario, però poi ho visto che si poteva studiare, che c’erano tanti corsi, e ho dovuto cedere a un compromesso. Bollate non è il classico carcere, ma un posto dove ci sono sia le possibilità che le condizioni per ricominciare, per capire qualcosa in più, magari scoprire di avere capacità diverse da quelle che pensavi di avere. Volevo studiare filosofia perché avevo letto l’Apologia di Socrate e mi innamorai del valore etico-morale descritto nel libro. Ero l’unico [a studiare filosofia, ndr] a Bollate e non sapevo nemmeno come farmi arrivare i libri. Oltre a studiare, lavoravo ed ero quel tipo di detenuto che in carcere non ha tempo. Non vedevo l’ora che alle 8.30 chiudessero la cella e ogni sera dalle 9 alle 2 studiavo in bagno. Mi svegliavo alle sei e ricominciava la routine. Amavo così tanto quello che facevo, che non solo non sentivo fatica, ma era bello. Solo che non capivo se stavo capendo qualcosa o no [di filosofia, ndr] e io non vedevo l’ora che i professori venissero dentro per confrontarmi con loro. Leggere e studiare filosofia da soli è un massacro: studi un filosofo, dopo 5 minuti ne studi un altro che dice cose più sensate e convincenti del primo, nonostante quello prima ti avesse convinto. Tutti i filosofi sono convincentissimi, solo che uno smonta l’altro.
Io cercavo tanta verità in questa filosofia, ma sono uscito dall’università con una laurea magistrale e con molti più dubbi di prima. La filosofia a me è servita a farmi capire di quanto io sia piccolo, quanto noi siamo piccoli, quante cose ignoriamo. Non mi ha dato né certezze né risposte né verità. Chi studia filosofia e pensa che troverà la verità, si sbaglia: una verità non c’è. Jankélévitch, un filosofo che mi piaceva molto, definiva il filosofo come una farfalla che gironzola attorno a un fuoco correndo sempre il rischio di bruciarsi le ali. Perché il filosofo non è altro che una persona che si espone, si mette nella condizione di essere ridicolizzato o criticato o massacrato dalle persone che leggeranno quello che ha scritto. E non è da tutti, non è facile.
Poter uscire dal carcere, studiare all’università e in generale le misure alternative: cosa ti hanno insegnato sul carcere?
Secondo me è giusto dover scontare una condanna, dal momento in cui ho commesso dei reati, ho infranto leggi e ho fatto del male. Ho fatto quello che ho fatto ed è corretto che io abbia una condanna, però è corretto anche che la mia pena abbia un senso non solo per me, ma anche per quelli che io incontro oggi e incontrerò domani. Come me sono tanti, sono tutti figli di madri, di padri, non sono bestie, nessuno nasce bestia. Si creano bestie in posti come questi [in carcere, ndr]: se tu prendi le persone, le tratti da persone, ti risponderanno umanamente.
Le detenzioni, se messe nelle giuste condizioni, magari servono qualcosa anche alla società perché ci piaccia o no, le carceri sono parte della società in cui viviamo.
Il mondo cambia tutti i giorni: tenere le persone all’oscurità e buttarle fuori alla luce all’improvviso fa male. È meglio pian piano, per dargli l’opportunità di reinserirsi nella società e ricreare qualcosa che può servirgli un domani. La soluzione deve essere graduale piuttosto che buttarle dentro e lavarsene le mani, altrimenti dopo un mese ce le hai di nuovo dentro, per reati magari più gravi.
Di cosa si occupa il Progetto Carcere Unimi, con cui hai collaborato?
È un’associazione studentesca che lavora nelle carceri milanesi. Sono un gruppo di studenti, che insieme a professori di tutte le materie, vanno in carcere e seguono corsi e lezioni in cerchio. Nei primi tempi sono tutti un po’ rigidi e tesi, si vede la differenza tra i detenuti e gli studenti. Dopo la seconda lezione, credimi, non capisci più chi sono i detenuti e chi sono gli studenti. Sono lezioni molto belle, non solo per le materie (filosofia, giurisprudenza, antropologia…) ma per lo scambio diretto e profondo di opinioni.
Nelle carceri milanesi è cresciuto molto il numero di detenuti che studia all’università Statale e gli studenti vanno in carcere a fare tutoraggio, a seguire chi non ha il diritto di uscita. Sono parecchi ormai anche quelli che vengono durante il giorno e tornano la sera in carcere. Studiano, danno esami come tutti gli studenti e poi vanno in carcere a dormire.
Se hai trovato questo argomento interessante e vorresti conoscere meglio cosa sono le misure alternative, puoi ascoltare il secondo episodio del nostro podcast, dove insieme a Julian e a Daniela Ronco, membro di Antigone e ricercatrice dell’Università di Torino, approfondiamo questi temi.
Per dare una mano a persone che, dal carcere, vorrebbero intraprendere un percorso basato sull’istruzione, puoi trovare maggiori informazioni qua (https://www.unimi.it/it/corsi/studiare-carcere).