Questo è il fotoracconto di una mattinata al Teatro Puntozero del Beccaria, il carcere minorile di Milano. La compagnia, formata da giovani detenuti e non, oggi mette in scena Errare Humanum Est, uno spettacolo che racconta ai ragazzi delle scuole il carcere, la devianza minorile e la necessità di sbagliare per crescere. Dal 1995, Giuseppe e Lisa lavorano insieme a detenuti, ragazzi in carico ai servizi sociali, studenti universitari e giovani artisti. Dai laboratori in carcere sono giunti alla ristrutturazione e all’apertura del teatro al pubblico nel 2019.
Con la maglietta di Superman, Giuseppe sale sul palco e comincia il suo monologo, intrecciato a scene cantate e rappresentazioni teatrali. Racconta di sé e della prima volta che è arrivato in carcere. Ventotto anni fa, appena diplomato alla Paolo Grassi, ha avviato un laboratorio di teatro in carcere, senza avere la minima idea di cosa sarebbe diventato. Il Beccaria a quel tempo non era circondato da grattacieli ma, avvolto dalla nebbia, sembrava sorgere in mezzo a una palude. Qual è il motivo che l’ha spinto a iniziare questo progetto? Probabilmente era lì per conoscere il male e guardarlo in faccia. Oggi, ventotto anni dopo, si rende conto che non l’ha mai incontrato.
Quando le luci si abbassano, del fumo bianco esce dal palco e si disperde in tutta la sala. Alex (El Simba) e Joseena iniziano a cantare. La musica si fonde ai racconti di Beppe e alle interazioni con un pubblico giovane e, inizialmente, quasi sbruffone. A fine spettacolo, Alex racconta come i suoi testi siano cambiati da quando ha iniziato a fare teatro e a recitare Shakespeare, Carroll, Sofocle… “La letteratura e i classici ci danno le parole per nominare le cose, per conoscere i nostri malesseri e non sentirci soli. Un conto è studiare questi testi a tavolino, un altro è “agirli” e vedere come si adattano alla nostra vita. Ciò che non conosci lo avverti come pericoloso, angosciante, ma quando dai nome a quella cosa puoi risolverla: questo fa il teatro” – dice Giuseppe.
Beppe prosegue il suo racconto illustrando come al Beccaria ci siano 100 detenuti e solo 10 di questi sono dentro per reati gravi. Circa la metà del totale ha partecipato ai loro laboratori nell’ultimo anno.
“Il teatro, indipendentemente dal contesto e dal luogo, è uno strumento che ci aiuta a capire come ci muoviamo, chi siamo. In questo luogo è doppiamente importante perché le persone capiscano che le loro azioni hanno una responsabilità. Il teatro è un percorso di ricerca, un continuo indagare, con la speranza che, al di là di questo, i ragazzi possano, con nuovi strumenti, non ricadere in quelle azioni sbagliate. Il teatro permette di entrare in comunicazione con l’altro in maniera profonda e diversa. Ha uno strumento che nient’altro ha, ovvero la presenza, agire insieme, respirare la stessa aria. L’obiettivo è far dimenticare al pubblico, una volta che è entrato da quella porta, chi c’è in scena” – dice Giuseppe.
“Questa è la prima volta che faccio teatro, prima non ne sapevo niente. Ho iniziato con loro dentro il carcere piano piano e ho capito che fanno cose belle, divertenti. Per preparare lo spettacolo passavo con loro tutta la giornata, ridendo tranquillo, mangiando e parlando insieme. È tipo una famiglia. Prima per me esisteva solo la musica: dopo aver recitato il primo spettacolo ho capito quant’è bello” – racconta uno dei ragazzi coinvolti nel progetto.
“Non puoi dare un lavoro a un ragazzo di 14, 15, 16 anni, devono imparare a ripossedere la loro età anagrafica. A quest’età gioca, divertiti. E come? Attraverso il teatro: ristabilisci i giusti rapporti, obiettivi comuni, lavoro comune. Nessuna persona quando è impegnata in qualcosa che lo soddisfa continua a commettere reati. Molti minori commettono reati per procurarsi adrenalina, ma quanta adrenalina c’è sul palco? Devi dare ai minori il ventaglio di possibilità e di scelta: guarda che invece che spacciare ti puoi divertire anche facendo teatro, cantando, lavorando su uno spettacolo. Non ti piace? Cerchiamo qualcos’altro. L’importante è avere la possibilità di scelta” – dice Giuseppe.
Lo spettacolo termina e la sala si svuota dalla centinaia di ragazzi che fanno ritorno a scuola. A un’attrice chiediamo che significato ha per lei fare teatro in questa compagnia: “Il teatro è un modo per liberare te stesso, entri nei panni di altri personaggi e cerchi di trovare te stessa nell’altro. Interpretare Alice [Alice nel Paese delle Meraviglie ndr] mi ha fatto ritrovare una parte di me, quella più bambina. Il teatro è un mezzo di liberazione”.
“A noi piace considerarci come un tutt’uno, non esistono ragazzi di dentro e ragazzi di fuori, noi siamo tutti alla pari. Non esiste io sono andato a scuola e tu no. Questa compagnia riesce a darmi delle emozioni che io fuori non ho mai provato. Sai l’amore per le piccole cose? Qui anche andare a prendere il gelato è diventata una cosa bellissima”.