Nello scorso articolo abbiamo analizzato la situazione dei suicidi in Italia e appurato la necessità di un supporto immediato e concreto. Le domande che ci siamo posti sono dunque state: dopo il suicidio di una persona cara, a chi si chiede aiuto? Quali i servizi sono disponibili nel nostro Paese? In cosa consiste la postvention e perché è fondamentale approfondire la ricerca accademica in questo campo?
La postvention dopo un suicidio
Oltre alla prevenzione, una nuova disciplina ha iniziato a prendere piede a livello internazionale: la postvention, ossia l’intervento a seguito di un suicidio verso coloro che restano, i cosiddetti suicide loss survivors.
Tutto parte dall’elaborazione del lutto, quel processo di adattamento e di ristrutturazione del mondo interno dell’individuo necessario per proseguire la propria vita. Inizialmente, vi è una fase acuta, composta da shock, rabbia e senso di colpa, ma passato un anno circa si dovrebbero iniziare ad alternare tali emozioni con sentimenti di rasserenamento, arrivando quindi al “lutto integrato”, il quale prevede il ricollocamento della persona all’interno della propria interiorità e quotidianità.
Quando la fatica e il dolore sono però persistenti, quando i survivors non sono in grado di adattarsi o di accettare la perdita, ci troviamo di fronte a quello che viene definito “lutto persistente complicato, traumatico o prolungato“. Questo si presenta come un mancato passaggio dalla fase del “lutto acuto” a quella del “lutto integrato”: manca uno step fondamentale, non si riesce a proseguire, qualcosa s’è inceppato. Il tasso di chi soffre di questa patologia è maggiore se la perdita avviene tramite suicidio, proprio per la modalità, che intrinsecamente porta con sé sentimenti di abbandono, di un’evitabilità che non risparmia nessuno, dello stigma che questo comportamento si trascina dietro da sempre. La negazione della sepoltura ora non c’è più, ma l’isolamento e la vergogna per il gesto compiuto dal proprio caro restano.
Diversi sono poi i fattori che concorrono ad aumentare il rischio di sviluppare questa patologia. Come mostra Naomi M. Simon, professoressa di psichiatria all’Università di Harvard, ci sono fattori pre-loss (genere femminile, traumi preesistenti, perdite pregresse, disturbi dell’umore o di personalità), fattori loss-related (ruoli di relazione e cura con il defunto, natura della morte), fattori peri-loss (circostanze sociali, risorse disponibili dopo il decesso, mancanza di informazioni sulla morte).
Gli interventi
Il primo intervento indicato dalle linee guida internazionali vede protagoniste le figure professionali che per prime si relazionano con i survivors: i medici legali e la polizia. Oltre a una formazione all’ascolto emotivo, questi devono essere in grado di indirizzare il soggetto verso i servizi di supporto appropriati, sopperendo così al disorientamento che, con tutte le probabilità, sta provando.
A lungo termine, il lavoro si fa più strutturato. Diverse sono le azioni che si possono compiere e partono dal contenimento dell’emozione della perdita, la quale a volte diventa propriamente Disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Molto fa il significato che il soggetto ha di quella morte: la necessità è quella di circoscriverla all’interno di un racconto che le restituisca senso, per togliere il senso di colpa dalle spalle da chi già sta soffrendo, riparando e reintegrando il nuovo tipo di rapporto che questo ha con il defunto. Si tratta del metodo dell’autopsia psicologica, il quale prevede per il processo di elaborazione, se necessario, anche l’utilizzo di foto e diari che i familiari e gli amici possono portare agli incontri. Tutto questo serve a riconciliarsi con la memoria del defunto, la quale è spesso divisa tra sentimenti positivi, ma anche di ostilità.
I primi passi
Da qui, il reinvestimento nella propria vita: andare avanti, far sì che la quotidianità non sia più paralizzata dalla perdita, dandosi il tempo necessario per soffrire e imparare a trovare una dimensione diversa, trasformata da un evento che non può essere trascurato, ma può riconsegnare la storia di una persona nuova.
Si stima che solo un quarto dei survivors cerchi aiuto. Le principali motivazioni per questo scarso ricorso al supporto sono diverse. Vi sono la negazione del dolore come scudo di protezione, la vergogna, il sentimento di colpa. Inoltre, la mancanza di informazione riguardo alle strutture di supporto e la mancanza delle stesse in primo luogo non permettono facilmente di agire.
Chi, consapevole della necessità di sostegno, chiede aiuto, vede davanti a sé tre possibili percorsi: la psicoterapia individuale, quella di gruppo e i gruppi di sostegno peer to peer.
La prima vede svilupparsi un rapporto a due: paziente e curante, il quale, più è formato sull’argomento, più risulta efficace nel lavoro terapeutico.
La terapia di gruppo, come dimostrato dallo psichiatra Irvin D. Yalom, può essere molto benefica, in particolare per la creazione di una rete sociale solidale e positiva.
Infine, ci sono i gruppi di mutuo aiuto, in presenza e online, nonostante in quest’ultima opzione si riscontri un alto tasso di abbandono.
Negli ultimi due casi, il gruppo permette il confronto tra persone che hanno vissuto la stessa esperienza, cercando insieme strategie per affrontare il presente e costruire un equilibrio affinché il futuro senza chi si è tolto la vita possa non essere un tabù.
Non sappiamo ancora cosa funzioni meglio, se la terapia individuale o di gruppo. Molto dipende dal profilo del survivor, anche se tendenzialmente i soggetti preferiscono un trattamento individuale. Tale riflessione resta preliminare, nonostante si possa affermare con certezza che in Italia esistono molteplici gruppi nati proprio dai survivors. Ciò risulta significativo soprattutto se si tiene conto dell’arretratezza e la quasi totale assenza di formazione sulla postvention nel nostro Paese.
Facendo diversi passi indietro si capisce, però, che il lavoro da compiere è più ampio e riguarda tutte e tutti: bisogna partire dalla psicoeducazione della società. Bisogna educare alle varie fasi del lutto, dallo stordimento, struggimento, disorganizzazione fino all’integrazione della perdita; conoscere e saper riconoscere le emozioni che con un lutto si possono provare. Tutto ciò rientra in quella prevenzione primaria di cui si è parlato nell’articolo precedente. Il “lutto complicato” si struttura dopo un anno dalla morte di una persona, ma intervenendo anticipatamente si può lavorare affinché questo non si verifichi.
Suicidio: i servizi in Italia per i survivors
Quali sono dunque i servizi che il nostro Paese e la regione Lombardia mettono a disposizione per chi resta? Purtroppo, non molti.
Non vi è una formazione omogenea su una disciplina come la suicidologia per i professionisti della sanità. Basti pensare allo scarso profilo che i survivors hanno in letteratura: perdere una persona che ha scelto di togliersi la vita è inaspettato e violento, lascia uno spazio vuoto difficile da colmare, eppure la letteratura accademica è limitata. L’affetto in primis, ma anche tutto il contributo che dava nella vita del survivor. Eppure, mancano ancora dei protocolli nazionali che descrivano come meglio intervenire e, perfino a livello internazionale, non sono così presenti.
Di conseguenza, anche gli aiuti concreti scarseggiano. Non essendoci servizi centralizzati a livello statale, è a discrezione delle singole ASST, dei comuni e degli ospedali, in base alle proprie disponibilità finanziarie e alla formazione e sensibilità del personale sanitario, la possibilità di mettere a disposizione servizi specifici.
Per esempio, in Alto Adige dal 2017 è stata fondata una rete di prevenzione al suicidio che conta oltre venti partner, sia pubblici che privati.
Per quanto riguarda il mutuo aiuto, in Italia sono circa 4000 i gruppi AMA (Auto Mutuo Aiuto). Nati con il desiderio di mettere in pratica solidarietà, in totale autonomia, tali gruppi risultano essere il perfetto inizio per affrontare il lutto. Se ci si trova nella situazione di voler partecipare ad uno di questi gruppi, utile è cercare in rete “gruppo AMA” e successivamente aggiungere il nome della propria regione.
Un fattore positivo e da non sottovalutare è l’inserimento del “lutto persistente complicato” nel DSM-5-TR, ovvero il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, uno degli strumenti imprescindibili per psicologi, psicoterapeuti e psichiatri di tutto il mondo. Questo permetterebbe ai sopravvissuti al suicidio di ricevere maggior attenzione, incentivando la ricerca e la creazione di linee guida per la postvention.
Cosa fare, come fare
Chi resta, chi sta soffrendo la perdita di una persona cara che ha deciso di togliersi la vita, ha bisogno di sostegno. Le persone intorno a loro possono confortare, ascoltare senza giudizio e senza sentenziare su quali emozioni o reazioni i survivors debbano provare e avere. Come abbiamo però descritto sopra, questo può non bastare.
Se una persona a noi cara crediamo non stia riuscendo, dopo diversi mesi, ad affrontare la perdita, è utile far presente la possibilità di chiedere l’aiuto di un professionista. Aiutandola a cercare un professionista, accompagnandola alle prime sedute, dimostrandole di non essere sola.
I primi passi possono essere fatti anche grazie ai gruppi AMA, scoprendo come non si è i soli a provare determinate emozioni, a essere instabili.
A essere, naturalmente, in lutto.
Scritto da: Alessandra Ruffo
Un ringraziamento speciale va alla professoressa Raffaella Calati, ricercatrice dell’Università di Milano-Bicocca ed esperta sul tema, la quale ci ha permesso di riflettere insieme a lei concedendoci un’intervista.
Potete trovare qui alcune delle sue pubblicazioni:
https://www.scopus.com/authid/detail.uri?authorId=55198411700
https://scholar.google.it/citations?user=WHxdMKgAAAAJ&hl=it&oi=ao