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Neoliberismo, punitivismo e la percezione della sicurezza a Milano

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Se i principali pilastri che sostengono le politiche neoliberiste sono la riduzione del welfare, la deregolamentazione del mercato e l’individualizzazione delle responsabilità, un pilastro ulteriore di queste stesse politiche è l’aumento dell’apparato punitivo.

Secondo questa visione, proposta da Loic Wacquant (2009), nel quadro politico neoliberista, l’azione dello Stato non si orienta verso un rafforzamento delle reti sociali, ma piuttosto su un potenziamento delle misure repressive, di sicurezza e del sistema carcerario, per rispondere alle stesse problematicità che le politiche neoliberiste acuiscono.

Il carcere, come principale pena somministrata da parte dello Stato per la gestione della criminalità, da strumento di contenimento, si trasforma in uno strumento di amministrazione delle disuguaglianze economiche e sociali, diventando la risposta alle tensioni generate dalla precarietà strutturale. Il sistema penale neoliberista, quindi, risponde all’insicurezza economica generata dallo smantellamento del welfare, aggravando la condizione delle persone negativamente colpite dai suoi effetti.

L’apparato punitivo si configura non solo come una risposta alla precarizzazione prodotta da queste politiche, ma come uno strumento attivo per la sua gestione e legittimazione, contribuendo a mantenere l’ordine sociale senza intaccare le strutture di potere che lo determinano. La sicurezza in questo contesto, assume una funzione disciplinare, scoraggiando la ribellione contro condizioni lavorative sempre più precarie e salari sempre più diseguali (Wacquant, 2010). 

Questa prospettiva può essere adottata anche nel contesto italiano e, in particolare, con un esempio urbano di questa dinamica e della sua diramazione securitaria, rappresentato dal caso di Milano. La città, spesso definita il motore economico del Paese, occupa il primo posto nell’Indice della Criminalità 2024 del Sole 24 Ore, con oltre 7.000 reati denunciati ogni 100.000 abitanti. Il dato è largamente influenzato dalla microcriminalità, fenomeno comune nei centri urbani ad alta affluenza turistica. Inoltre, seppur i dati sulla criminalità siano altalenanti, con comunque un aumento del 4,9% dei reati rispetto al 2019, crimini gravi come omicidi e rapine sono in calo rispetto ai primi anni Duemila. Ciononostante, la percezione della sicurezza tra i cittadini rimane distorta, alimentata da narrazioni allarmistiche, diffuse dai media tradizionali e da pagine social che accrescono una sensazione pervasiva di insicurezza e degrado urbano.

Recentemente, ce ne siamo resi conto facendo caso agli effetti della violenza, alimentata da quelle pagine web che denunciano fatti di cronaca successi nello spazio pubblico cittadino, di molti uomini che credono sia necessario “farsi giustizia da soli” per stabilire l’ordine.

 “Fate Attenzione a Borseggiatrici e Borseggiatori”:

Questo fenomeno si potrebbe chiamare pornografia della punizione per descrivere il modo in cui la criminalità viene spettacolarizzata attraverso la comunicazione, spesso orchestrata dagli stessi attori politici che promuovono politiche neoliberiste, con l’obiettivo di alimentare il senso di insicurezza e legittimare misure repressive. Questo processo, conosciuto anche come populismo penale, spinge l’opinione pubblica a percepire il controllo punitivo come l’unica soluzione possibile, portando a una domanda crescente di politiche sempre più severe (Garland, 2009).

Secondo Garland (2001) questa dinamica si inserisce in un contesto più ampio in cui le classi medie, sempre più insicure e precarie, proiettano le proprie paure su gruppi sociali più vulnerabili, sgravandosi dal bisogno di trovare un “altro” su cui scaricare l’ansia di declino economico. In particolare, ciò risponde alle necessità emotive di rassicurazione di fronte alla prospettiva di un ulteriore peggioramento della qualità della vita, alla svalutazione immobiliare delle aree percepite come insicure e, in senso più ampio, alla paura diffusa della precarietà economica. In questo modo, individuano negli altri un capro espiatorio sul quale sfogare la propria indignazione positiva, definita così perché, pur esprimendo frustrazione, offre un senso di sollievo e alleggerimento emotivo

Di conseguenza, la punizione diventa un rituale rassicurante, un mezzo per mantenere la stabilità sociale attraverso la repressione altrui. Questa esigenza punitiva ha radici profonde: psicoanalisti e criminologi nel corso della storia hanno osservato come, in momenti di crisi, gli individui tendano ad associarsi a figure di potere per colmare il senso di impotenza (Garland, 2001). La punizione, quindi, diventa un surrogato del controllo personale che si sente di aver perso nella vita quotidiana e, chi la esegue, un referente di forza e solidità.  

 

Oltre la Securitizzazione Urbana:

Il ciclo della punizione, però, non si limita alla repressione simbolica: ha effetti concreti sulle politiche di sicurezza urbana. A Milano, ad esempio, il dispiegamento di nuove unità di forze dell’ordine viene spesso percepito come una misura favorevole da chi chiede maggiore sicurezza. Tuttavia, questa risposta rischia di essere solo un palliativo: senza interventi strutturali sulle cause della precarietà e delle disuguaglianze, l’insicurezza economica continuerà a crescere, alimentando nuove richieste di controllo e punizione. Inoltre, diversi studi dimostrano che un maggiore numero di forze dell’ordine non riduce necessariamente il tasso di criminalità. In modo simile, ricerche comparative su diverse città occidentali mostrano che la prevenzione sociale, attraverso l’istruzione e il sostegno economico, ha un impatto più duraturo sulla sicurezza rispetto alla mera repressione penale.

L’antropologia della sicurezza offre strumenti critici per analizzare queste dinamiche. Studi come Deport, Deprive, Extradite (2018) di Kapoor e Spaces of Security (2019) di Gluck mostrano come la securitizzazione degli spazi urbani sia una strategia transnazionale, utilizzata dagli Stati per consolidare il proprio potere. In particolare, l’etnografia di Gluck su Nairobi, Kenya, evidenzia come lo Stato abbia intensificato il proprio consenso attraverso la retorica della minaccia terroristica, trasformando la città in dei “securityscapes” (security landscapes) e giustificando politiche repressive che colpiscono specifiche categorie sociali (Gluck, 2019). Kapoor (2018), invece, ci permette di approfondire le strategie di sicurezza preventiva britanniche, come la pratica dello “stop and search” (fermare e perquisire), basata su premesse di profilazione razziste che fanno eco alle radici coloniali della polizia britannica, stabilita nell’Ottocento e preceduta dalle pattuglie schiaviste in contesti imperiali (Hadden, 2003).

Il caso di Milano può rappresentare un esempio paradigmatico delle contraddizioni del neoliberismo: da un lato, una città che punta sulla crescita economica e sulla competitività globale; dall’altro, un sistema sociale che lascia indietro intere fasce di popolazione, poi criminalizzate per la loro condizione di marginalità. Ma se la risposta continuerà a essere esclusivamente repressiva, senza mai affrontare le vere radici dell’insicurezza urbana, il punitivismo come risposta alle paure personali si perpetuerà. 

Tuttavia, è possibile immaginare un’alternativa a questa logica punitiva. Piuttosto che continuare a investire in misure repressive, una politica più efficace dovrebbe concentrarsi su interventi strutturali che affrontano le cause profonde dell’insicurezza. Investimenti nel welfare, nell’educazione, nel sostegno alle famiglie, nel diritto alla casa e in opportunità lavorative stabili possono ridurre drasticamente il bisogno percepito di misure punitive.

La trasformazione del paradigma della sicurezza non può avvenire solo dall’alto, ma deve partire anche da noi, attraverso un cambio di mentalità collettivo che riconosca i limiti della repressione e si apra a nuove forme di giustizia sociale. Mettere in discussione la narrativa dominante della punizione e della sicurezza, come due facce della stessa medaglia, per promuovere invece pratiche di inclusione e supporto reciproco cittadino e comunitario sono passi essenziali per costruire città realmente più sicure, giuste e solidali.

Se ti interessano le misure alternative, potrebbe interessarti quest’intervista a Julian, ex detenuto, il quale ci ha raccontato la sua storia con il Progetto carcere UNIMI dell’Università Statale di Milano.

Articolo scritto da: Maria Alessandra Panzera

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