La mattina
Tutto comincia alle sette quando suona la sveglia, o meglio quando la porta della stanza si spalanca, qualcuno butta dentro la testa e avvisa che è ora di alzarsi. Said solleva piano la testa dal cuscino e stropicciando gli occhi intravede l’uomo nel letto di fianco al suo che sta facendo la stessa cosa. Una luce grigia, invernale, entra dalle finestre in fondo alla stanza, ma non è abbastanza intensa per illuminarla tutta. All’improvviso si accende la luce e compaiono sei letti a castello, uno a fianco all’altro. Le pareti bianche circondano la stanza e fanno risaltare quanto sia vuota e spoglia. Si gira per l’ultima volta nel letto, avvolto da una pesante coperta marrone che non sembra particolarmente pulita, mentre le voci degli altri uomini si alzano sempre di più intorno a lui. Due di loro riprendono la discussione della sera prima, un eterno dilemma che sembra non poterli mettere d’accordo. Said pensa a quanto pagherebbe per cinque minuti di sonno in più. Gli altri, infreddoliti e ancora addormentati, sembrano zombie mentre escono dallo stanzone. È arrivato anche il suo momento di alzarsi. Scende dal letto a castello: il pavimento è freddo e, quando i piedi nudi sfiorano terra, rabbrividisce. Si mette in coda per usare il bagno, in tutto ci vuole circa mezz’ora. Una doccia e via, qualcuno si ferma alla macchinetta del caffè per bere un espresso. Alle otto tutti fuori: il dormitorio ha ufficialmente chiuso le sue porte, si riapriranno solo questa sera alle nove.
Per Said, questa è una delle prime volte che esce alla stessa ora degli altri. Vive nel dormitorio da tre mesi, ma per tutto questo tempo ha lavorato in un cantiere per uno che conosce. Attaccava la mattina presto intorno alle sei e usciva che i suoi compagni ancora dormivano. Quello che ai suoi occhi era un cantiere enorme, il più grande a cui avesse mai lavorato, si era concluso prima di quanto si aspettasse e in pochi mesi avevano terminato il lavoro. Poco dopo, il permesso di soggiorno era scaduto e, nella lunga attesa per poterlo rinnovare, non aveva potuto firmare un nuovo contratto. Così adesso, non sapendo bene come occupare la giornata, segue un gruppo di uomini che escono in massa dalle porte del dormitorio. In piedi alla fermata, aspettano il tram verso il centro. Ricomincia un’altra giornata.
Il pomeriggio
Sono le due e Destiny è seduto sulla poltrona massaggio di un centro commerciale. Il meccanismo è rotto, ma non importa, non l’avrebbe attivato comunque. Gioca al telefono, sbircia le vetrine dei negozi, chiama un amico. Apre un quaderno per ripassare quello che ha imparato all’ultima lezione di italiano e legge a bassa voce sforzandosi di articolare i suoni, ce che ge ghe ci chi gi ghi. Ce-nto, bar-che, ge-lato, ghe-pardo. A ogni parola è affiancato un disegno, incollato e colorato sulla pagina a quadretti. Dopo poco chiude il quaderno e si appoggia allo schienale della poltrona, accosta la testa al muro e chiude gli occhi senza addormentarsi.
Due ore dopo è nella stessa posizione, solo su una panchina di un parco. Si siede sempre sulla stessa nonostante ce ne siamo molte, disposte in cerchio e tutte rivolte verso una statua orrenda. Il cielo è grigio, fa freddo e se inizia a piovere si dovrà spostare sotto i portici. Chiacchera con un altro ragazzo seduto vicino a lui. Guardano su YouTube il video di una nota cantante nigeriana e ridacchiano scorrendo un video dopo l’altro. Fuma qualche sigaretta mentre mostra le foto della famiglia agli amici, dalle loro bocche escono morbide nuvole di vapore.
Quando ci incontriamo nella cucina di casa sua, che ha da poco preso in affitto insieme ad altri due ragazzi nigeriani, gli chiedo di quei giorni, in cui, senza lavoro, passava le sue giornate seduto ad aspettare che le ore del giorno passassero e che le porte del dormitorio si riaprissero per mangiare qualcosa e crollare nel letto. Quando fa freddo a Milano stare tutta la giornata all’aperto non è semplice. “Sai – mi dice – avevo amici che trascorrevano il giorno sull’autobus, al mattino sceglievano una linea e andavano su e giù da un capolinea all’altro. Almeno lì su non si gelava”. Si alza dalla sedia e si risiede, per rialzarsi di nuovo e spostarsi dall’altra parte del tavolo. Nella sua irrequietezza non riesce a trovare le parole per raccontare.
Quando è arrivato in Italia, ha trovato subito posto in un dormitorio appena fuori Milano. Dopo poco un lavoro al mercato ortofrutticolo, una sorta di magazziniere carico scarico impegnato prima dell’apertura, la mattina presto. La proposta è buona e vorrebbe accettarla, ma non ha tenuto in conto che il dormitorio apre solo alle sette e prima di allora non si può uscire. “Come scusa per guadagnare tempo e convincere il responsabile del dormitorio a fare un’eccezione e farmi uscire prima, ho chiesto al capo qualche giorno per valutare l’offerta. Ma quello mi ha guardato come se fossi matto, c’erano almeno altre dieci persone che avrebbe potuto assumere se non avessi accettato subito”. A quel punto le possibilità erano due, avere un letto ma restare senza lavoro o guadagnare quei soldi dormendo in strada? Non c’era alternativa. “Quel primo lavoro lo persi e per i mesi successivi non trovai nient’altro, ma non potevo rinunciare a un posto dove dormire, faceva troppo freddo. A stare in strada si diventa matti”. Non lavorare significava però passare giornate vuote, ore dopo ore ad aspettare che il tempo trascorresse. “Qualche volta il pomeriggio andavamo nei centri diurni, si guardava la tv o si giocava a biliardino, certe volte c’era la scuola di italiano e si poteva riposare. E lì la vedevo la gente che dormiva per strada, che approfittava del caldo per addormentarsi sui divani del centro, con gli occhi rossi per il freddo e la stanchezza”.
La sera
Alle otto meno dieci scendiamo le scale della metropolitana verde per entrare nel mezzanino, di fronte a noi un lungo corridoio che porta ai tornelli. Tra pochi minuti questo ingresso verrà chiuso e non sarà più possibile proseguire verso i binari, ma adesso ci sono ancora dei passanti che entrano ed escono, probabilmente ignari che tra poco questo corridoio diventerà un dormitorio. Non appena è l’ora, dal magazzino vengono portate fuori le brandine e disposte lungo due file. Seguono due o tre tavoli di legno che vengono sistemati sulla destra per la cena e infine, all’entrata, un tavolino di plastica bianco attorno a cui si forma presto un capannello di persone in cerca del proprio nome sulla lista delle presenze. Dalle otto alle dieci e mezza saranno circa in trenta ad arrivare. Intanto, da una mensa viene portata la cena, pasta in bianco, cotoletta e patate. Su ogni tavolo bottiglie d’acqua e cassette di mandarini. Si mangia un po’ alla volta, a seconda di quando si arriva. Qualcuno è più lento e ne approfitta per chiacchierare, altri mangiano velocemente senza staccare gli occhi dal telefono.
Ahmed è seduto al tavolo, con la forchetta in mano rimuove la pellicola sopra il piatto di plastica e addenta un pezzo di cotoletta. Un altro signore pakistano, che dal colore dei capelli sembra poco più giovane, si trascina lentamente fino alla panca e si siede di fronte a lui. Mangiano ignorandosi, senza rivolgersi la parola o scambiarsi uno sguardo. Mi chiedo se il motivo di questo silenzio sia un’antipatia, un tacito accordo di indifferenza reciproca, o magari senza saperlo sono uno il punto di riferimento dell’altro in questo dormitorio pieno di sconosciuti.
In un angolo di fronte al tavolo c’è un mucchio di sacchi gialli della spazzatura. Finita la cena Ahmed recupera il suo, lo riconosce dal nome scritto con il pennarello. Contengono ciascuno un sacco a pelo: sono tutti blu, come le brandine. Dei dieci letti sul lato sinistro del corridoio, Ahmed preferisce il quinto, a metà strada, non troppo in fondo dove gli sembra claustrofobico, né troppo vicino ai tavoli, dove alcuni stanno ancora mangiando, facendo rumore. Recupera il suo sacco a pelo e lo stende sul letto, preparandosi per la notte. Poco dopo, l’altro signore pakistano lo raggiunge e occupa la brandina di fianco alla sua.
Per andare in bagno, esce dal mezzanino: appena fuori ci sono tre bagni chimici, accessibili fino a quando le porte non si chiudono. Spera di non svegliarsi in mezzo alla notte, come succede altre volte, perché a quel punto l’unica soluzione è un secchio, che viene svuotato la mattina dopo. Pronto per andare a dormire, si infila dentro le coperte, gelide al primo contatto con la pelle. Con le mani afferra il bordo del sacco a pelo e lo tira su più che può in modo che gli arrivi fino al collo. Di solito si toglie i calzini per andare a letto, odia la sensazione che prova quando sfregano contro le lenzuola, ma in questi giorni ha troppo freddo per stare senza. Le braccia e le gambe si fanno sempre più pesanti e affondano nella brandina, si sente addosso tutti i suoi sessantotto anni. Quando sta per prendere sonno, viene risvegliato dalle voci di alcuni ragazzi che vorrebbero entrare, ma non sono sulla lista. Compare il solito poliziotto che si staziona alla fine del corridoio a sorvegliare la porta, due suoi colleghi sono in cima alle scale. Finalmente intorno alle undici sono tutti entrati, ogni brandina è occupata e anche le porte del mezzanino possono chiudersi fino all’indomani.