Detenzione femminile tra invisibilità e marginalità

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Continuando la serie di inchieste, tramite video, articoli e podcast, sul mondo delle carceri di Milano e del resto d’Italia, questo articolo si concentra sulla detenzione femminile tra invisibilità e marginalità.

Attraverso una breve indagine che racchiude report, dati e approfondimenti recenti, ci concentriamo su alcune delle criticità più urgenti: la carenza cronica di attività formative e ricreative, la complessità della gestione della maternità e le problematiche legate alla detenzione delle donne trans. Tutto questo è visto attraverso una lente critica che non considera il carcere come una soluzione efficace ai conflitti della nostra società e che crede nella possibilità di costruire una risposta alternativa. Una risposta più umana.

Per accompagnare la nostra riflessione, abbiamo ascoltato anche le voci di chi ha studiato e raccontato il carcere da vicino. Tra queste, quella della giornalista Isabella De Silvestro, autrice di Gattabuia, un podcast di Domani prodotto da Emons Record, che ci ha aiutato a ricostruire il quadro intricato e spesso ignorato del sistema penitenziario al femminile.

A lungo la criminalità femminile non è stata studiata perché si pensava che la donna fosse biologicamente meno incline all’aggressività, alla violenza e alla commissione di reati. Secondo gli studiosi, “le donne commettevano meno reati degli uomini perché erano meno forti, avevano un’indole più timida e prudente che le frenava dal comportamento criminale, ma soprattutto erano relegate alla sfera privata, quasi del tutto assenti nella sfera pubblica, incorrendo dunque in meno occasioni criminali” scrive Giulia Fabini su Antigone.

Ancora oggi le donne autrici di reato vengono considerate doppiamente colpevoli: “l’uomo corrotto è responsabile solo di sé stesso, la donna corrotta invece corrompe i figli, il marito, i parenti, tradisce il patto sociale che la vuole esempio di docilità e buona condotta” dice De Silvestro.

Fonte: Pino Rampolla – Corriere della Sera.

La detenzione femminile:

La presenza delle donne detenute nelle carceri italiane si attesta da molti anni poco sopra il 4% del totale della popolazione detenuta. Sono circa 3000 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani, distribuite tra le tre carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Roma e Venezia), gli Istituti a custodia attenuata (Icam) e le 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. In questi contesti, la popolazione femminile costituisce un “ritaglio” di quella maschile, il che significa, in modo molto concreto, una disattenzione dei loro bisogni e una riduzione delle attività disponibili, dato che quasi mai è permessa la frequentazione congiunta di uomini e donne.

Come spiegato da Isabella De Silvestro, infatti, “il carcere è concepito secondo una logica di genere binaria e modellato innanzitutto sulle esigenze maschili.” Ed aggiunge, “se già di per sé questo luogo per un uomo è insostenibile, per una donna lo diventa ancor di più a causa dell’assenza di offerta trattamentale e di reinserimento.” Ad esempio, ci sono casi in cui non è stato previsto alcun impiego lavorativo e le iniziative ricreative, sportive e culturali risultano spesso limitate, se sono del tutto inesistenti.

La problematicità della mancanza di attività è quindi un riflesso di un sistema pensato per gli  uomini che ha diversi effetti negativi sulle donne. “La possibilità ridotta di partecipare ad attività non vuol dire solo non avere niente da fare, ma soprattutto che, di conseguenza, ci siano più probabilità di cadere in depressione o di soffrire di forte ansia. In molte di queste sezioni l’abuso di psicofarmaci è altissimo” evidenzia Isabella De Silvestro.

Il disagio psichico, infatti, appare maggiore tra la popolazione detenuta femminile. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% delle presenti e fanno regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne totali, contro il “solo” 41,6% degli uomini. “Durante una visita alla Giudecca, una delle carceri femminili, ricordo di aver notato due ragazze, ma in particolare una di loro, con lo sguardo totalmente vuoto e spento. Ho avuto l’impressione che questa persona avesse assunto una dose di psicofarmaci veramente alta, perché aveva uno sguardo assente, profondamente malinconico e triste” ricorda Isabella De Silvestro.

Maternità:

Un’altra questione significativa riguardo alla detenzione femminile è quella della maternità, che fa sorgere molteplici complessità. Quella principale è una doppia criticità che ha a che fare con il garantire, da una parte, il diritto del bambino a crescere in un ambiente sano e, dall’altra, il suo diritto  a mantenere la relazione affettiva con la madre.

“Nella mia esperienza il distacco dai figli genera moltissima sofferenza e apre un discorso sulla maternità e sulla difficoltà di essere genitore in carcere” dice Isabella De Silvestro, che continua, “Che cos’è più giusto o meno sbagliato? Da un lato crescere un bambino in carcere gli permette di non essere separato dalla madre, dall’altro è ingiusto che una persona passi i primi anni della sua vita in un luogo opprimente e chiuso come quello penitenziario.”

Attualmente, in Italia le donne madri detenute possono tenere con sé i propri figli fino a tre anni d’età, nelle sezioni nido degli istituti penitenziari, negli Icam o nelle case famiglia protette, cioè strutture non penitenziarie di tipo comunitario. Queste ultime sembrano essere la soluzione migliore per le detenute madri e per il benessere dei loro figli. Eppure, in Italia sono soltanto due.

In questo contesto, però, si inseriscono diverse limitazioni del sistema penitenziario nell’accogliere i bisogni primari di cura e le necessità di salute, sviluppo, sostegno affettivo, economico e scolastico per madri e bambini. Infatti, “I bambini che hanno passato i loro primi anni di vita in carcere presentano danni sul piano dello sviluppo psicofisico, problemi nella deambulazione, ritardi nell’articolare della parola e difficoltà nelle relazioni sociali” riporta Isabella De Silvestro.

Da Associazione Antigone

La doppia detenzione delle donne trans:

Nel 2023, erano circa 70 le detenute trans nelle carceri in Italia, collocate nelle “sezioni protette” dei reparti maschili, in considerazione solo dell’identità anagrafica e nonostante un contrasto con le linee guida europee in merito. In queste stesse aree si trovano uomini accusati o condannati per reati, ad esempio, di violenza sessuale, abusi su minori, e altri reati cosiddetti “infamanti” che portano con sé il rischio di ritorsioni violente da parte di altri detenuti e richiedono, quindi, particolare tutela.

Per questo, per le donne trans, si parla di “doppia detenzione”: una per il reato commesso e l’altra per il fatto di essere trans e quindi recluse in quelli che si potrebbero definire “ghetti” all’interno delle stesse carceri. In più, poiché le donne trans in molti casi provengono da reati legati alla prostituzione, questa collocazione congiunta a detenuti reclusi per reati di natura sessuale le esporrebbe a un ambiente potenzialmente disagiante.

Un’ulteriore difficoltà è anche legata al fatto che spesso arrivano da situazioni di marginalità sociale e che quindi si trovano senza una rete di supporto al di fuori. Ciò si può considerare nella cornice della discriminazione intersezionale di cui è centrale la matrice di classe, ma anche quella migratoria, se si considera che circa l’80 per cento delle donne trans detenute non sono italiane. Questo comporta, ad esempio, non poter sempre accedere alle misure alternative, come l’arresto domiciliare o la semilibertà, che spesso richiedono delle risorse esistenti per essere effettuate.

È significativo aggiungere che la sanità rappresenta per le donne trans detenute un ulteriore tema importante: se l’accesso alla terapia ormonale è un diritto riconosciuto dall’articolo 11 comma 10 dell’Ordinamento Penitenziario, questo lo è soltanto laddove tale terapia per l’affermazione di genere è già in corso quando avviene l’ingresso in carcere, escludendo quindi da tale diritto le donne trans che non la possiedono già.

A Milano:

In che stato si trova la detenzione femminile a Milano?

Le donne detenute a Milano si trovano soprattutto nella sezione femminile della Casa di Reclusione di Bollate e in uno dei tre Icam presenti in Italia, cioè quello di San Vittore.

All’interno dell’istituto di Bollate ci sono 2 sezioni femminili. Nel 2023, 140 erano le donne detenute totali (a fronte di una capienza regolamentare di 107 persone), di cui 20 autorizzate al lavoro all’esterno (19) o una in regime di semilibertà, ubicate in una palazzina separata dal resto. Delle donne detenute 39 sono di origine straniera (il 27,9%).

Nel 2023 nella Casa Circondariale di San Vittore si trovano 79 donne detenute nella sezione femminile, divisa in tre aree detentive. 37 di queste erano di origine straniera, tra Sud America ed Est Europa, soltanto 3 potevano svolgere lavoro esterno, mentre nessuna godeva della semilibertà.

Come menzionato, Milano è l’unica città che vanta i tre livelli di custodia detentiva, e le madri detenute possono passare dalla sezione nido all’Icam e successivamente alla casa famiglia protetta. Un percorso che da un lato inserisce in un contesto ricco di attività e di interazione con l’esterno, ma che dall’altro si scontra con un buco normativo: “diverse ospiti non hanno documenti. Senza residenza e senza lavoro non possono averli. Ma senza documenti non trovano lavoro e una volta fuori per lo Stato italiano spariscono” scrive Pietro Mecarozzi sull’Espresso.

Intersezionalità in carcere:

Nel discorso sulla detenzione femminile è importante considerare come diversi fattori (l’età, la classe, la razza, lo stato sociale e possibili precedenti etc.) interagiscono tra loro. “Donne diverse fanno esperienze diversificate del sistema della giustizia penale e quindi lo studio del sistema del diritto penale deve allargare il proprio interesse anche all’indagine delle condizioni della donna fuori dal sistema della giustizia penale” scrive Giulia Fabini su Antigone. Come fuori dal carcere, le donne autrici di reato si trovano in posizione svantaggiata all’intersezione tra classe, genere e razza.

Per spiegare la presenza delle donne in carcere non si può fare riferimento a un concetto universale di donna, che non esiste, ma bisogna indagare le esperienze diversificate. Questo discorso deve comprendere un’analisi dei differenti vissuti di marginalità, della cittadinanza, dei percorsi di violenza, del tipo di reati di cui sono autrici, tenendo in considerazione il fatto che il carcere per come è costituito oggi è una soluzione estremamente fallace ai conflitti della nostra società.

Come può il carcere prendersi cura della sofferenza delle persone? Di coloro che hanno disturbi psichiatrici o una dipendenza? Non penso la soluzione sia mettere queste persone in luoghi in cui non le vediamo, in cui non siamo costretti a prendercene cura come società. Un modo potrebbe essere quello di ripartire da una forma di cura condivisa, collettiva, come ha fatto Basaglia nel caso della salute mentale”, riflette Isabella De Silvestro.

Anche per questo, è necessario immaginare risposte altre, che non passino per l’invisibilizzazione della sofferenza, ma per il riconoscimento delle sue radici sociali e strutturali. Aprire uno spazio in cui ripensare la giustizia non in termini di punizione, ma di responsabilità condivisa e trasformazione collettiva, interrogandosi sul superamento del carcere stesso.

Articolo di Martina Cangialosi e Maria Alessandra Panzera.

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