Il viaggio ha inizio una fredda mattina di aprile. Si sono svegliati all’alba nel piccolo appartamento di Pieve Emanuele, un paese vicino Milano, ospiti di un lontano cugino. E’ lo stesso che ha fornito loro i vestiti che stanno per indossare e che nell’ultimo mese si è preoccupato di fare avere ai bambini un pasto caldo ogni giorno. Fuori è ancora buio e i palazzi che vedono dalla finestra della stanza sono avvolti dalla nebbia. I due si vestono, riscaldano del latte a lunga conservazione su un pentolino e poi svegliano i bambini che hanno lasciato dormire fino all’ultimo.
Mohammed e Ajbarah sono una coppia giovane, due ragazzi libici di circa trent’anni. Mi raccontano questa storia seduti su un divano colorato, uno vicino all’altro. Lei ha in mano l’uncinetto e un gomitolo di lana, sta provando a fare un cappellino per il figlio – mi dice – anche se è solo alle prime armi. Lui ha un po’ di barba, i capelli neri, molto scuri, tagliati corti. Non è molto alto, sembra più giovane degli anni che ha. Indossa una giacca verde sopra un paio di jeans e, anche se siamo al chiuso, non se la toglie. Lei porta un velo nero, che mi impedisce di vedere il colore dei suoi capelli, ma presumo sia lo stesso del marito, gli occhi e le ciglia così scuri.
Quella mattina, usciti dall’appartamento, si sono diretti alla stazione insieme ai bambini. Pieve Emanuele dista da Milano solo dieci minuti. Scendono a Rogoredo e qui aspettano il treno che in poco meno di due ore li porterà a Bologna. Per poco non lo perdono: hanno così tanti bagagli con loro, oltre al passeggino in cui il più piccolo sta dormendo – ma finalmente salgono e si siedono occupando i loro posti nella carrozza quattro. Inizia così il loro viaggio attraverso l’Italia: sono diretti a Rodì, un paesino di duemila abitanti nella provincia di Messina, che raggiungeranno in treno. La strada sarà lunga e l’arrivo a destinazione è previsto solo per la mattina dopo.
Seduta al suo posto, Ajbarah osserva i figli: Nadir ha sette anni ed è il più grande. Somiglia molto al padre e come lui dimostra molti meno anni di quelli che ha. Con i suoi occhi grandi e curiosi scruta il paesaggio fuori dal finestrino. La donna ha un forte senso di protezione nei suoi confronti, addirittura di più di quanto ne abbia per il più piccolo, appena neonato. Nadir infatti ha avuto una pesante infezione alla gamba, che gli hanno dovuto amputare fino al ginocchio. Da allora cammina con una piccola stampella colorata, anche se spesso, quando gioca, la abbandona e si muove saltellando su una gamba sola. Ajbarah sa che suo figlio non è un bambino fragile, o tantomeno debole, ma non può fare a meno di avere sempre un pensiero in più per lui. Il figlio minore, addormentato nel passeggino in una tutina blu troppo grande per lui, si chiama Akram, ma lei e Mohammed tra di loro lo chiamano Rabi, che in arabo vuol dire “primavera”, perché è stato concepito proprio in quella stagione, mentre progettavano di partire per l’Italia.
Il loro viaggio infatti è iniziato ben prima di questa mattina. Mohammed è partito per primo dalla Libia ed è arrivato in Italia due mesi fa. Ajbarah e i bambini l’hanno raggiunto qualche settimana dopo, il più piccolo era appena nato. Sono arrivati in aereo, con un biglietto che hanno ottenuto grazie ai sacrifici da parte di entrambi e delle loro famiglie, che all’inizio erano contrarie alla partenza. Senza aspettare che scadesse il visto turistico, sotto consiglio di un’associazione, hanno fatto subito la richiesta d’asilo per ottenere la protezione internazionale. “Quelli sono stati i giorni più difficili”, mi dice Mohammed, “eravamo lontani dalle nostre famiglie e ci sentivamo terribilmente soli. Io, a differenza di mia moglie, parlavo almeno qualche parola di italiano, ma farmi capire era un’impresa”. Mi raccontano che già dopo alcune settimane si sono resi conto che a Milano non c’era un posto adatto ad accogliere tutta la famiglia. Provvisoriamente potevano essere ospitati da un lontano cugino che era in Italia da parecchi anni, ma dovevano trovare una soluzione definitiva. Questa si era presentata poco tempo dopo: si era liberato un posto in un centro d’accoglienza nella provincia di Messina, dove sarebbero stati accolti, avrebbero ricevuto assistenza socio-sanitaria e i bambini sarebbero andati a scuola. Qualche giorno dopo si erano messi in viaggio.
Sono ormai le 12:30 quando il treno si ferma a Bologna Centrale. A bordo dell’Eurocity hanno attraversato la Pianura Padana. È stato un viaggio sereno, i bambini sono stati tranquilli: Nadir incantato dalla velocità con cui i paesaggi scomparivano dalla sua vista, Rabi intrattenuto da tutti i passeggeri che si fermavano ad ammirarlo e a fargli un sorriso. Ajbarah sa che è troppo piccolo per accorgersene, ma sospetta che il bambino sia quasi lusingato da tutte quelle attenzioni.
Hanno quarantadue minuti per prendere il cambio, ma le valigie sono tante, la stazione è più grande di quella di Rogoredo e hanno difficoltà a trovare il giusto binario. In più i bambini iniziano a mostrare i primi segni della fame, questa mattina hanno bevuto solo una tazza di latte caldo. Alla fine riescono a salire sul treno, trovano i loro posti e sono addirittura in anticipo di dieci minuti rispetto alla partenza. Non appena il treno per Roma inizia a muoversi, Ajbarah decide che è arrivata l’ora di pranzare. Finché hanno abitato a Pieve, sono riusciti a mangiare ogni giorno alla mensa della Caritas, ma per il pranzo di oggi si è dovuta arrangiare. Per pochi euro ha trovato del riso al supermercato, che ha cotto insieme a delle patate. Non è il massimo, ma se lo fanno bastare, per la cena e il pranzo di domani dovranno trovare un’altra soluzione.
L’Intercity sfreccia veloce lungo la costa adriatica, il mare compare all’orizzonte e il sole è alto nel cielo. È una bella giornata e anche Mohammed, nonostante sia stremato per i turni di lavoro notturni che ha fatto nelle ultime settimane, è allegro, guarda fuori dal finestrino e indica ai bambini il mare. Per la prima ora e mezza il treno si ferma continuamente nelle città costiere, Rimini, Riccione, Cattolica. Ajbarah nota diversi gruppi di ragazze, che probabilmente hanno approfittato del bel tempo per andare al mare, avranno almeno dieci anni meno di lei, ma sembrano molto più grandi. Mentre ripensa a quando lei aveva la loro età e immagina quando Nadir e Rabi avranno vent’anni, chiude gli occhi appoggiando la testa al finestrino e si addormenta. Il marito non dorme, lascia che Ajbarah si riposi, sa quanto era agitata per questo viaggio, le sembrava impossibile, così tante ore in treno con i bambini, i bagagli, i cambi. Eppure, sebbene la strada da fare sia ancora tanta, tutto sta procedendo bene. Ci pensa Nadir a richiamarlo dai suoi pensieri: “Papà che cosa vuol dire “spiaggia”?”
Ajbarah si risveglia per il pianto di Rabi: ha fame o forse gli deve solo cambiare il pannolino. Si guarda attorno preoccupata sperando che il pianto del bambino non abbia disturbato gli altri passeggeri, ma la carrozza è semivuota. Hanno appena passato la fermata di Foligno – l’avvisa Mohammed – per Roma mancano ancora due ore. Ajbarah prende il figlio in braccio e va in cerca di un bagno dove cambiargli il pannolino. Mentre attraversa le carrozza, si accorge che, anche se non sembra esserci una stazione nei dintorni, il treno ha iniziato a rallentare fino a fermarsi del tutto. Dal finestrino entra la luce del sole che tramonta e lentamente scende, mentre il cielo si colora di rosa e per un momento anche Rabi smette di piangere, per poi subito ricominciare. Un uomo e una donna seduti vicino al bagno li stanno guardando, Ajbarah fa loro un sorriso di scuse. Sembrano dirle qualcosa in italiano, che però lei non capisce. Così a gesti le fanno segno di avvicinarsi e di prendere posto nel sedile davanti al loro. La donna inizia a giocare con Rabi, “bubu settete” gli dice, discostando le mani dal viso e sorridendo. Il bambino la guarda, meravigliato, e finalmente smette di piangere. Piccoli occhi grandi, color nocciola, osservano la donna che ride, e quando anche l’uomo fa un sorriso, Ajbarah si scioglie e sorride anche lei. Un po’ a gesti un po’ con l’aiuto di Google Traduttore, le due donne cominciano a parlare. La signora, che le dice di chiamarsi Maria, le racconta che sta andando a Roma a trovare la figlia e i tre nipoti, ed è normale che il treno stia fermo per così tanto, ci sarà stato un incidente o un rallentamento, si spera che presto riparta. Quando scopre che sta andando a Messina, le lascia scritto su un biglietto il nome e il numero di telefono dicendole che molte sue amiche abitano lì e spesso va a trovarle, magari un giorno si rincontreranno. Ora fuori è completamente buio e improvvisamente Ajbarah si ricorda di aver lasciato la sua carrozza da troppo tempo, Mohammed sarà preoccupato.
Dopo la sosta di circa un’ora, il treno riparte e il viaggio verso Roma procede. Purtroppo hanno perso la coincidenza, ma non è un grosso problema perché c’è un altro Intercity diretto a Messina che parte alle 23:00. Arriveranno solo qualche ora dopo il previsto. Mentre scende dal treno, Ajbarah cerca con lo sguardo la signora Maria e il marito, vuole salutarli e presentarli a Mohammed, ma si confondono tra gli altri passeggeri. Subito cercano un posto dove passare le ore successive, possibilmente al coperto perché l’aria della sera è ancora fredda. Sono ormai le ventuno, la stazione è quasi deserta e trovano facilmente delle panchine libere in un corridoio. Mentre Ajbarah aspetta lì insieme ai bambini e ai bagagli, Mohammed va a cercare un negozio aperto dove comprare la cena. Nadir si guarda intorno, affascinato da tanti negozi che si susseguono uno dopo l’altro, lungo il corridoio di cui non si vede la fine. Così luminosi e colorati, sicuramente dietro quelle spesse vetrine si nascondono degli oggetti meravigliosi. Ottiene dalla mamma il permesso di andare da solo fino in fondo al corridoio, e lei lo guarda allontanarsi a piccoli passi appoggiato alla sua stampella. Si ferma davanti a qualche vetrina, alzando la testa all’insù per osservare le insegne dei negozi. E a ogni passo che fa alla madre sembra sempre più piccolo, più bambino, più indifeso, finché non gira l’angolo e scompare dalla sua vista.
Non appena salgono sul treno, un Intercity notte diretto a Messina, Nadir rimane a bocca aperta nel vedere dei letti al posto delle normali poltrone, non crede ai suoi occhi e ogni traccia di stanchezza scompare dal volto. Non si capacita del fatto che non solo dormiranno su un treno, ma che questo verrà messo su un traghetto per attraversare il mare. Non smette un secondo di fare domande al riguardo finché stremato non si addormenta in braccio al padre.
Il treno sfrecciando sulle rotaie attraversa i paesaggi che dicono essere i più belli d’Italia, ma che, avvolti dal buio, non si riescono a distinguere dalla cuccetta. Non si vede Napoli, la Costiera amalfitana, la campagna calabra, tutto è immerso nel nero della notte. Mohammed si sdraia sul lettino della cuccetta in alto, Nadir sotto di lui, mentre Ajbarah e il piccolo ne dividono un’altra. È scomodo, ma è pur sempre un letto, soprattutto dopo una giornata che è iniziata diciotto ore prima e ottocento chilometri più a nord. Dall’alto del suo letto, Mohammed osserva in silenzio la moglie che con una mano accarezza la testa del figlio, così piccola ma piena di capelli, gli bacia la fronte e le mani e tutte le dita, fino quando chiude gli occhi anche lei. “Sarà stata la scelta giusta?” sussurra Mohammed più a sé stesso che alla donna, probabilmente già addormentata. Ma di quale decisione sta parlando? Ne hanno dovute prendere così tante ultimamente. La scelta di scappare dai pericoli del suo Paese per essere quasi invisibile in un altro? O quella di lasciare una grande città per vivere in un piccolo paese così isolato? O ancora, quella di crescere i suoi figli in una cultura straniera? Probabilmente non lo sa neanche lui.
Intorno alle sei del mattino dopo, Mohammed riapre gli occhi, alza la testa dal cuscino e vede che il treno sta rallentando per entrare nel porto. In silenzio, scuote Nadir e lo sveglia. Gli fa cenno di stare zitto e di seguirlo fuori dalla cabina. Vuole mostrargli qualcosa. Dopo qualche galleria, dal finestrino del corridoio vedono il treno entrare nella bocca del traghetto. Un macchinista fa cenno al capotreno di proseguire lentamente, come se stessero entrando in stazione. Il bambino è a bocca aperta, ancora non ha capito come sia possibile che la nave regga tutto quel peso. Ma per lui le sorprese non sono finite qua. Venti minuti più tardi, mentre la mamma e Rabi dormono nelle cuccette, lui e il padre scendono dal treno e salgono sul ponte della nave. La traversata non è lunga, poco più di mezz’ora, ma Nadir ne coglie ogni istante. Osserva le luci della costa allontanarsi e il sole sorgere lentamente, il mare blu scuro, profondo, riflette i raggi luminosi. Gli bruciano gli occhi per tutta quella luce, lascia aperto solo uno spiraglio per non perdersi neanche un secondo di quello spettacolo. Ma ciò che lo stordisce più di tutto è l’odore, il profumo del mare si alterna alle folate che escono dal motore del traghetto e a quelle di cibo caldo che vengono dal bar del ponte. E poi c’è il rumore del vento e delle onde che sbattono contro lo scafo e lo assordano. Insieme al padre trova riparo nella parte più coperta del ponte, senza però smettere di guardare il mare e la schiuma bianca che si lasciano dolcemente alle spalle.
In carrozza, mangiano qualche biscotto e bevono un succo di frutta, mentre il treno esce dal porto di Messina. Tra pochi minuti scenderanno, trascinando i bagagli e il passeggino. Un volontario del centro verrà a prenderli alla stazione e dopo un’ora di macchina arriveranno a Rodì. Verrà loro assegnata una stanza, un bagno e dei vestiti. All’inizio non sarà sicuramente facile inserirsi, ma poi lentamente tutto prenderà la piega giusta. I bambini saranno i primi a imparare l’italiano e a fare amicizia, poi anche Mohammed e Ajbarah si sentiranno accolti, troveranno degli amici e un lavoro. Qualche mese più tardi verrà comunicato loro che finalmente hanno ottenuto l’asilo politico e festeggeranno tutti insieme.
Ma tutto questo deve ancora succedere. Adesso sono ancora sul treno, che, in perfetto orario, entra nella stazione di Messina. Sono le 8:05 e, dopo più di ventiquattro ore, il loro viaggio attraverso l’Italia è giunto al termine. Da Pieve Emanuele a Messina, più di mille chilometri per il Paese che forse diventerà la loro nuova casa. Un viaggio così lungo, di cui ogni minuto e ogni chilometro sono stati vissuti con la lentezza del viaggio iniziatico, ha dato il via alla loro nuova vita. Il treno si ferma e loro scendono, Rabi nel suo passeggino, Nadir con la mano stretta a quella della mamma, Mohammed al suo fianco.
Articolo scritto da: Martina Cangialosi
Foto di: Emanuele Roberto De Carli
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