“Siamo persone umane, noi siamo persone umane” urlano i detenuti del CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) di via Corelli a Milano, come mostratoci nelle riprese di No ai Cpr – Mai più lager e Associazione Naga nel documentario “The years we’ve been nowhere” , regia di Piacentini e Cascavilla. Eppure, il processo di animalizzazione dell’indigeno colonizzato continua ancora oggi con l’erede: il migrante.
Tanto durante la colonizzazione, quanto la decolonizzazione gli indigeni erano definiti bestie: rantolavano una lingua diversa dal colono, non avevano gli stessi valori degli europei, biologicamente erano inferiori. Per anni la teoria biologico-razzista dei neri lobotomizzati del medico Carothes è stata largamente approvata dalla comunità scientifica, dall’ambito accademico, dall’élite e in maniera del tutto razionale. Se infatti si pensa che “lo stadio di sviluppo cerebrale raggiunto dall’indigeno medio è quello di un bambino europeo di sette o otto anni”, sarebbe impossibile mettere sullo stesso piano tale figuro con un uomo bianco francese, per esempio. Dall’esportazione della democrazia all’appropriazione di terre e civiltà, dalla depredazione di risorse alla schiavizzazione di retrogradi indigeni, dunque, si spiega come questi europei sentissero il dovere morale di civilizzare tali individui. Come? Opprimendoli in ghetti, vietando loro assistenza sanitaria o istruzione, nutrendoli con cibo avariato, sedandoli per placarli: questi sono solo alcuni trattamenti di una serie di interminabili violenze. Ciò accadeva neanche cento anni fa, ma sembra di descrivere una giornata qualunque nei CPR.
Slur o tutela?
Si tratta di un processo di animalizzazione. Lo psichiatra di origine algerina Fanon riporta una delle più comuni similitudini degli anni ’60, dove il colonizzato è considerato come parassita e il colonizzatore come DTT, noto ai tempi per essere tra i primi insetticida moderni (Fanon, 1961). È ancora così? Le persone che scappano da una situazione di disastrosa precarietà e perdurata violenza, sono ancora considerate animali, parassiti? Khosravi, antropologo iraniano, testimonia come nel Medio Oriente “pecore” o “galline” indicano coloro che si travestono da animali – tradizionali vittime di riti sacrificali, per attraversare i confini; renshe “serpenti umani” in Cina; pollos “polli” coloro che tentano di attraversare la frontiera messicana (Khosravi, 2010).
La fotografia in copertina è di ©Surinyach Anna/MSF
Il sopruso nei CPR
Oggi l’immigrato viene rinchiuso per illecito amministrativo, e oltre vent’anni fa tale pratica era ampiamente illustrata nei testi di Sayad (2004), sociologo algerino. È un sopruso trattenere un essere umano fino a diciotto mesi, senza che questo sappia la propria data di scadenza. È un sopruso chiamare le persone per numero invece che per nome, ricevere poche e fittizie cure, essere estraniati senza un telefono per contattare familiari o avvocati, ritrovandosi isolati, alienati, soli, abbandonati. La libertà di movimento è loro preclusa e il criterio è il colore della pelle. “L’aspetto brutale del confinamento dei richiedenti asilo è che la loro reclusione non è la conseguenza di un reato ma della loro stessa situazione di perseguitati” (Khosravi, 2010). Niente più e niente meno di un’apartheid globale, e legale.
Lo stigma della deportazione
Alla luce di queste informazioni, la quota di traumatizzazione è radicata e non trascurabile. Lasciare il Paese natale e i propri affetti; affrontare l’odissea e diventare un Enea che all’approdo non costruirà una nuova Roma, bensì troverà solo e soltanto una dignità inaccessibile. Subentra qui la vergogna di tornare (per volontà propria, o più comunemente per deportazione forzata) dalla famiglia d’origine. Questa attende speranzosa un rientro in patria fatto di vanti e valigie traboccanti d’oro. Nessun medico o ingegnere tornerà loro. Nemmeno la consolazione del proprio sangue è concessa, il rapporto si amputa all’inizio del viaggio. Le comunicazioni sono rase, le menzogne aiutano a sottrarsi dal giudizio.
Ma cosa possiamo farci, noi? D’altronde soffrono della sindrome nordafricana: essendo pigri e meschini per natura, con opportunismo chiedono aiuto per mero tornaconto (Fanon, 1952). Vengono solo a rubarci il lavoro, a piangere da noi, ma hanno il telefono più bello del nostro. Questo espediente narrativo è stato spiegato da Fanon negli anni ‘60, eppure suona fin troppo familiare.
Come dev’essere accolta la richiesta di ascolto dei migranti?
Dopo aver decostruito il mito del migrante-animale-approfittatore-pigro-bugiardo, è necessario parlare della figura del mediatore: la barriera linguistica è la prima che un migrante trova davanti a sé. È fondamentale entrare nel territorio linguistico dell’altrui esperienza, del tunsi, del farsi, del berbero. Le strutture sociali, le relazioni tra queste, la pedagogia, la religione, non sono uguali a quelle italiane, tantomeno a quelle europee. Una figura mediatrice è indispensabile affinché la compulsione di decifrare e diagnosticare secondo i nostri personalissimi modelli cognitivo-comportamentali venga abbandonata. Arrenderci all’onnipotenza ed educarci all’ascolto.
Anche questa è integrazione.
Scritto da: Alessandra Ruffo
Hai appena letto il primo articolo di una rassegna che a breve uscirà sul nostro sito. Il tema è lo stesso, i CPR, ma verrà affrontato secondo diverse prospettive.
A questo link potete trovare alcuni dei nostri articoli precedenti: Richiedenti asilo: l’accoglienza in Italia e Richiedenti asilo: l’accoglienza a Milano e il caso di Via Cagni
BIBLIOGRAFIA
Frantz Fanon, Pelle nera maschere bianche, 1952
Frantz Fanon, I dannati della terra, 1961
Shahram Khosravi, Io sono confine, 2010
Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, 2004
Grazie alla collaborazione e il costante impegno di No ai CPR – Mai più Lager e Associazione Naga.